Il primo Portale del cane Pastore Abruzzese

 


2)Ristretto campo di azione. Questo termine va inteso sia in senso stretto,cioè fisico, sia in senso lato, cioè attitudinario.

  1. In senso fisico. Il cane deve agire in un’area  molto ristretta , limitata alla proprietà aziendale o all’area coperta dal branco di pecore al pascolo in movimento, comunque mai oltre il centinaio di metri dal gregge. Questo è molto importante; ottenere tale comportamento è stato sicuramente il lavoro più arduo e il risultato più lusinghiero nell’opera di selezione. La pecora di razza abruzzese,  vissana,  sopravissana,  gentile, pagliarola, e in genere tutte le merino ,pascolano abbastanza raccolte e in caso di minaccia, invece di fuggire, si ammucchiano attorno a qualcosa che dia loro sicurezza, oppure  al centro di ampi spazi aperti, in tal modo il loro controllo da parte dei cani o del pastore viene molto facilitato. Quando le prede sono protette  , i lupi sono soliti attaccare in gruppo, con ruoli differenziati nell’azione: c’è chi provoca e distrae i cani e c’è chi aggredisce il bestiame. Un cane incauto verrebbe attirato lontano dal gregge con il risultato di lasciare le pecore in balia dei predatori e di venire sicuramente ucciso egli stesso. Il cane abruzzese ,solo o in gruppo, si stringe nella difesa  addosso alle pecore cercando di evitare ad ogni costo che i lupi penetrino nel loro cerchio, intervenendo rapidamente dove maggiore è la necessità.
    Mai i cani, anche se in buon numero, devono lasciarsi andare alla seguita lasciando le pecore senza difesa e senza un punto di riferimento, in preda al panico.
     

  2. In senso attitudinale .Il cane abruzzese è stato creato esclusivamente per la custodia   delle pecore. Se riesce a rendersi utile anche in altri campi, non ha alcuna rilevanza. E’ vero che essi vengono impiegati nella  guardia di proprietà o nella caccia ai lupi  e ai cinghiali con ottimi risultati, sono anche in grado di stanare e uccidere le prede; mai però  utilizzare per impieghi molteplici cani addetti al gregge, sono  soggetti  a stimoli  e tentazioni che possono distrarli dal loro  lavoro. La tradizione li vuole immessi al lavoro già in tenera età per essere più a lungo modellati dall'ambiente e dall’esempio degli adulti e facciano subito della vita del gregge il  motivo della loro esistenza.  Il cane toccatore impone alle greggi   determinate direzioni di movimento con la minaccia e l’aggressione. Pretendere da un Cane abruzzese di guatare o aggredire una pecora è richiedere cosa contro natura . Non solo non può essere utilizzato come toccatore, ma rimane difficile anche farli convivere con i toccatori , proprio per  contrapposizione e incompatibilità di  ruoli.
    Il Cane Abruzzese non deve né guatare né toccare.
     

3)Autonomia operativa

Il vocabolo “Autogestione” ha insito il concetto di raziocinio, che non ammettiamo negli animali, ma in mancanza di un termine più calzante, nel caso specifico lo usiamo per indicare la capacità che un  Cane Abruzzese ha di eseguire autonomamente il lavoro di custodia del gregge con iniziative differenziate nella differenza delle circostanze, soprattutto in assenza del fattore uomo. Anzi, è riscontrato che la presenza del padrone spesso  inibisce il cane.
Il mondo pastorale abruzzese ha avuto da sempre due tipi di situazioni imprenditoriali molto differenti tra loro:

  • La grande masseria, a carattere transumante,  con diverse migliaia di capi di bestiame ,dove l’organizzazione dell’azienda prevede  ruoli specializzati e fissi, con personale assunto e mute di cani di numero rilevante che lavorano sempre a contatto con l’uomo , salvo nelle ore notturne, quando il bestiame è ricoverato negli stazzi.
    Nella grande azienda il rapporto tra cani e pecore è di uno a cento , centocinquanta.
    La selezione genetica e lo standard  sono garantiti dal numero dei cani e dalle leggi di natura, dove la forza e l’astuzia fanno di un cane un capo , il solo con il  compito e il diritto di riprodursi e trasmettere i propri geni ,il razzatore.
    E’ chiaro che l’intervento dell’uomo nel controllo delle razza si limita alla necessaria e spietata eliminazione dei soggetti non idonei e alla immissione di sangue nuovo nelle mute ,eseguita con l’introduzione periodica e costante di femmine provenienti da altri allevamenti.
    Il rapporto dei cani con i pastori  avventizi  prezzolati e con breve permanenza  nella masseria non è quasi mai ottimale, salvo rari casi; si limita alla reciproca sopportazione nel rispetto rigoroso dei  ruoli. Il rapporto tra i cani è regolato da una rigida gerarchia stabilita da continue e spesso sanguinose verifiche di dominanza.
    Un capo non ha mai la certezza del proprio dominio sugli altri, egli  deve imporla e mantenerla ogni giorno.
    Nella muta le baruffe sono frequenti, sia tra maschi che tra femmine, raramente  però  durante il lavoro.
    L’ambiente e la durezza del lavoro completano la selezione.
    Il freddo , il caldo, la fatica, le ferite, le malattie, la fame eliminano i deboli e temprano i più robusti e l’istinto di sopravvivenza ne fa  campioni nell’arte di arrangiarsi, a spese di tutti , mai delle pecore.
     

  • La piccola realtà allevatrice, stanziale, familiare, necessariamente complementare e parallela ad altre attività , dove la cura del bestiame è per la gran parte del tempo affidata alle donne , ai ragazzi e soprattutto ai cani.
    Le bocche da sfamare non possono mai  essere tali da rompere il rapporto ottimale costi-ricavi.
    Il numero dei cani difficilmente supera  i due per ogni famiglia quasi sempre maschi e fratelli, nel caso si abbia il terzo ,è una femmina.
    In questa circostanza è l’uomo che massimamente incide, anzi determina la qualità dei cani e di conseguenza la razza.
    E’ l’uomo che stabilisce gli accoppiamenti, sceglie i periodi per il parto, seleziona i cuccioli, li addestra al lavoro, li premia e li punisce, li  nutre e li cura coadiuvato dagli altri cani, insieme a tutta la famiglia.
    Il rapporto uomo cane diventa più intenso.
    E’ qui che il cane impara a considerare le pecore come proprietà.
    E’ in questa realtà che l’uomo, impegnato anche in altre attività, si trova molto spesso nella necessità di affidare  il gregge alla sola custodia del cane.
    E il cane è  là , sempre vigile e sempre disponibile.
    Si guarda e si coccola le sue protette, e le pecore lo sanno.
    Capite perché tanta cura nello scegliere e allevare un cane,  uno della  famiglia; uno che la sera  può dire  a ragione “oggi anch’io ho tirato avanti la carretta.”
    S’è visto più di una volta chi piangeva  la morte del proprio cane.
    E’ la vita fianco a fianco con l’uomo di montagna,  duro con se stesso e con gli altri, nelle gioie e nei sacrifici, che modella il cane, lo ragguaglia e lo rende capace di agire nella custodia del gregge in  sostituzione del padrone.
    “ All’abbiata” il cane non deve mai seguire il padrone e lasciare le pecore.
    Il piccolo allevatore non si contenta del primo arrivato, il cucciolo se lo va a cercare dove sa di poter trovare “ robba “ di prima qualità.
    A questa scelta sono legate troppe cose.
    Si preferisce far accoppiare le cagne alla fine di novembre o i primi di dicembre: I cuccioli arrivano in febbraio, restano nella tana o nella stalla fino a marzo e poi…fuori!   al sole fino al  novembre successivo.
    L’arrivo dell’inverno li trova già robusti e forti , a dieci mesi neve e gelo gli fanno un baffo.
    Mai catena ficett  bon cane, dice un vecchio adagio trasaccano.

    Un pastore in  Abruzzo non tiene mai a catena il suo cane, è un segno di sfiducia. E’ contro le regole.
    La catena è per i vigliacchi, per impedir loro di fuggire davanti al pericolo.
    La catena è per i malfattori, per impedir loro di fare del male.
    La permanenza prolungata alla catena  sconvolge l’equilibrio del cane e lo rende un potenziale pericolo; gli toglie la vita di gruppo; gli inibisce il senso della proprietà, la capacità di valutazione del pericolo, la possibilità di scegliere il miglior modo per affrontarlo; gli lascia solo la possibilità di abbaiare e di intristire.

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