2)Ristretto campo di azione. Questo termine va inteso
sia in senso stretto,cioè fisico, sia in senso lato, cioè
attitudinario.
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In senso
fisico. Il cane deve agire in un’area molto ristretta ,
limitata alla proprietà aziendale o all’area coperta dal branco
di pecore al pascolo in movimento, comunque mai oltre il
centinaio di metri dal gregge. Questo è molto importante;
ottenere tale comportamento è stato sicuramente il lavoro più
arduo e il risultato più lusinghiero nell’opera di selezione.
La pecora di razza abruzzese, vissana, sopravissana,
gentile, pagliarola, e in genere tutte le merino ,pascolano
abbastanza raccolte e in caso di minaccia, invece di fuggire,
si ammucchiano attorno a qualcosa che dia loro sicurezza,
oppure al centro di ampi spazi aperti, in tal modo il loro
controllo da parte dei cani o del pastore viene molto
facilitato. Quando le prede sono protette , i lupi sono soliti
attaccare in gruppo, con ruoli differenziati nell’azione: c’è
chi provoca e distrae i cani e c’è chi aggredisce il bestiame.
Un cane incauto verrebbe attirato lontano dal gregge con il
risultato di lasciare le pecore in balia dei predatori e di
venire sicuramente ucciso egli stesso. Il cane abruzzese ,solo
o in gruppo, si stringe nella difesa addosso alle pecore
cercando di evitare ad ogni costo che i lupi penetrino nel loro
cerchio, intervenendo rapidamente dove maggiore è la necessità.
Mai i cani, anche se in buon numero, devono lasciarsi andare
alla seguita lasciando le pecore senza difesa e senza un punto
di riferimento, in preda al panico.
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In senso
attitudinale .Il cane abruzzese è stato creato esclusivamente
per la custodia delle pecore. Se riesce a rendersi utile
anche in altri campi, non ha alcuna rilevanza. E’ vero che essi
vengono impiegati nella guardia di proprietà o nella caccia ai
lupi e ai cinghiali con ottimi risultati, sono anche in grado
di stanare e uccidere le prede; mai però utilizzare per
impieghi molteplici cani addetti al gregge, sono soggetti a
stimoli e tentazioni che possono distrarli dal loro lavoro.
La tradizione li vuole immessi al lavoro già in tenera età per
essere più a lungo modellati dall'ambiente e dall’esempio degli
adulti e facciano subito della vita del gregge il motivo della
loro esistenza. Il cane toccatore impone alle greggi
determinate direzioni di movimento con la minaccia e
l’aggressione. Pretendere da un Cane abruzzese di guatare o
aggredire una pecora è richiedere cosa contro natura . Non solo
non può essere utilizzato come toccatore, ma rimane difficile
anche farli convivere con i toccatori , proprio per
contrapposizione e incompatibilità di ruoli.
Il Cane Abruzzese non deve né guatare né toccare.
3)Autonomia
operativa
Il vocabolo “Autogestione” ha insito il concetto di raziocinio,
che non ammettiamo negli animali, ma in mancanza di un termine
più calzante, nel caso specifico lo usiamo per indicare la
capacità che un Cane Abruzzese ha di eseguire autonomamente il
lavoro di custodia del gregge con iniziative differenziate nella
differenza delle circostanze, soprattutto in assenza del fattore
uomo. Anzi, è riscontrato che la presenza del padrone spesso
inibisce il cane.
Il mondo pastorale abruzzese ha avuto da sempre due tipi di
situazioni imprenditoriali molto differenti tra loro:
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La grande
masseria, a carattere transumante, con diverse migliaia di
capi di bestiame ,dove l’organizzazione dell’azienda prevede
ruoli specializzati e fissi, con personale assunto e mute di
cani di numero rilevante che lavorano sempre a contatto con
l’uomo , salvo nelle ore notturne, quando il bestiame è
ricoverato negli stazzi.
Nella grande azienda il rapporto tra cani e pecore è di uno a
cento , centocinquanta.
La selezione genetica e lo standard sono garantiti dal numero
dei cani e dalle leggi di natura, dove la forza e l’astuzia
fanno di un cane un capo , il solo con il compito e il diritto
di riprodursi e trasmettere i propri geni ,il razzatore.
E’ chiaro che l’intervento dell’uomo nel controllo delle razza
si limita alla necessaria e spietata eliminazione dei soggetti
non idonei e alla immissione di sangue nuovo nelle mute
,eseguita con l’introduzione periodica e costante di femmine
provenienti da altri allevamenti.
Il rapporto dei cani con i pastori avventizi prezzolati e con
breve permanenza nella masseria non è quasi mai ottimale,
salvo rari casi; si limita alla reciproca sopportazione nel
rispetto rigoroso dei ruoli. Il rapporto tra i cani è regolato
da una rigida gerarchia stabilita da continue e spesso
sanguinose verifiche di dominanza.
Un capo non ha mai la certezza del proprio dominio sugli altri,
egli deve imporla e mantenerla ogni giorno.
Nella muta le baruffe sono frequenti, sia tra maschi che tra
femmine, raramente però durante il lavoro.
L’ambiente e la durezza del lavoro completano la selezione.
Il freddo , il caldo, la fatica, le ferite, le malattie, la
fame eliminano i deboli e temprano i più robusti e l’istinto di
sopravvivenza ne fa campioni nell’arte di arrangiarsi, a spese
di tutti , mai delle pecore.
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La piccola
realtà allevatrice, stanziale, familiare, necessariamente
complementare e parallela ad altre attività , dove la cura del
bestiame è per la gran parte del tempo affidata alle donne , ai
ragazzi e soprattutto ai cani.
Le bocche da sfamare non possono mai essere tali da rompere il
rapporto ottimale costi-ricavi.
Il numero dei cani difficilmente supera i due per ogni
famiglia quasi sempre maschi e fratelli, nel caso si abbia il
terzo ,è una femmina.
In questa circostanza è l’uomo che massimamente incide, anzi
determina la qualità dei cani e di conseguenza la razza.
E’ l’uomo che stabilisce gli accoppiamenti, sceglie i periodi
per il parto, seleziona i cuccioli, li addestra al lavoro, li
premia e li punisce, li nutre e li cura coadiuvato dagli altri
cani, insieme a tutta la famiglia.
Il rapporto uomo cane diventa più intenso.
E’ qui che il cane impara a considerare le pecore come
proprietà.
E’ in questa realtà che l’uomo, impegnato anche in altre
attività, si trova molto spesso nella necessità di affidare il
gregge alla sola custodia del cane.
E il cane è là , sempre vigile e sempre disponibile.
Si guarda e si coccola le sue protette, e le pecore lo sanno.
Capite perché tanta cura nello scegliere e allevare un cane,
uno della famiglia; uno che la sera può dire a ragione “oggi
anch’io ho tirato avanti la carretta.”
S’è visto più di una volta chi piangeva la morte del proprio
cane.
E’ la vita fianco a fianco con l’uomo di montagna, duro con se
stesso e con gli altri, nelle gioie e nei sacrifici, che
modella il cane, lo ragguaglia e lo rende capace di agire nella
custodia del gregge in sostituzione del padrone.
“ All’abbiata” il cane non deve mai seguire il padrone e
lasciare le pecore.
Il piccolo allevatore non si contenta del primo arrivato, il
cucciolo se lo va a cercare dove sa di poter trovare “ robba “
di prima qualità.
A questa scelta sono legate troppe cose.
Si preferisce far accoppiare le cagne alla fine di novembre o i
primi di dicembre: I cuccioli arrivano in febbraio, restano
nella tana o nella stalla fino a marzo e poi…fuori! al sole
fino al novembre successivo.
L’arrivo dell’inverno li trova già robusti e forti , a dieci
mesi neve e gelo gli fanno un baffo.
Mai catena ficett bon cane, dice un vecchio adagio trasaccano.
Un pastore in Abruzzo non tiene mai a catena il suo cane,
è un segno di sfiducia. E’ contro le regole.
La catena è per i vigliacchi, per impedir loro di fuggire
davanti al pericolo.
La catena è per i malfattori, per impedir loro di fare del
male.
La permanenza prolungata alla catena sconvolge l’equilibrio
del cane e lo rende un potenziale pericolo; gli toglie la vita
di gruppo; gli inibisce il senso della proprietà, la capacità
di valutazione del pericolo, la possibilità di scegliere il
miglior modo per affrontarlo; gli lascia solo la possibilità di
abbaiare e di intristire.
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